Categorie
Ecologia politica

Che futuro vogliamo costruire e come iniziare a immaginarcelo: la lotta alle grande opere inutili, dannose e imposte per un cambio di paradigma concreto

Il noto filosofo e linguista Noam Chomsky nel suo scritto Media e Potere, sfruttando un esperimento scientifico condotto negli Stati Uniti a fine ‘800, riporta il cosiddetto “Principio della rana bollita” che recita:

“Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.”

Con questa metafora egli cercava di descrivere l’avvilente propensione dei popoli contemporanei ad adattarsi passivamente all’accettazione di una condizione sfavorevole, vessatoria e dannosa se questa manifesta le sue caratteristiche negative diluite nel tempo e, soprattutto, se gli apparenti benefici istantanei che mira a concedere ci aggradano: è la metafora del capitalismo in occidente. La globalizzazione che ci aveva illuso, che prometteva prosperità e agio, ha generato solo devastazione ecologica e micro-guerre, economiche e non; ha acuito enormemente le diseguaglianze sociali ed elevato ancor più il profitto sopra i diritti umani fondamentali. Anni e anni di scelte scellerate, purché fornissero il cosiddetto benessere, ci hanno fatto sommessamente agonizzare nel nostro pentolone. Il COVID-19 invece ci ha gettato nell’acqua in ebollizione scatenando subito fra noi le più svariate reazioni, non sempre ponderate o razionali ed efficaci, ma ci ha inevitabilmente destati/e da un lungo torpore di ignavia.

In questi lunghi giorni di quarantena, in molt* si sono interrogat* sulle cause della pandemia, anche i “non addetti ai lavori” hanno iniziato a percepire le nefaste conseguenze di un modello di crescita, produzione e consumo che, come un virus, ha finora devastato selvaggiamente aria, mari e terreni sul nostro pianeta; un modus operandi e vivendi che usurpa vite e incide sulla quotidianità di miliardi di persone a discapito di una omologazione agli imperativi di un modello di vita che potremmo riassumere nello slogan consuma, crepa… ma produci.

In tant* vedono nella pandemia un segnale delle contraddizioni profonde tra modello socioeconomico (di produzione e consumo dei beni) e riproduzione della natura: capitale e ambiente sono su due rette parallele.

Ci si sta rendendo conto che la causa del virus debba esser ricercata nella sordità alle richieste di un cambio di paradigma nella crescita: i movimenti sociali contro le grandi opere inutili e dannose da anni si battono per invertire la rotta e tornare a modelli di sviluppo energetico, e di produzione e di consumo, ecologici e sostenibili. L’agroindustria selvaggia, che ha divorato ettari ed ettari di foreste, l’ampliamento degli allevamenti intensivi, l’estrattivismo senza freni, che ha portato ad investimenti spropositati nei combustibili fossili e nelle relative infrastrutture di trasformazione e trasporto, si presentano come concause della pandemia.

Il COVID ha smascherato le contraddizioni del capitalismo, ha mostrato come allevamenti intensivi e inquinamento dell’aria siano rispettivamente la genesi e la forza del virus. Sembra quasi paradossale che, in una Europa dove il calo dei consumi di metano è trend dominante da anni, le banche centrali finanzino con miliardi di euro la costruzione del TAP in Salento. I lavori per la costruzione del terminale di ricezione e per la posa dei tubi sono andati avanti a un ritmo sostenuto in questi mesi di lockdown, a conferma che per il consorzio TAP la legge non è la stessa che vale per il resto della popolazione (i cantieri in corso d’opera non rientrano nelle attività necessarie previste dal dpcm del 22/03). In Valsusa, seppur rallentati per la sanificazione, gli scavi per il tunnel geognostico del TAV sono avanzati sui binari di quello che da 30 anni si ostinano a definire “progresso”. E nemmeno per l’opera di ampliamento di tangenziale e autostrada di Bologna, nota come Passante di Mezzo, la macchina capitalista si è arrestata. In questo periodo di pandemia il mega-sistema delle grandi opere stradali, ferroviarie e infrastrutturali non è stato scalfito dal lockdown. Anzi, i magnati delle grandi opere e i loro galoppini al governo premono per una prosecuzione dei lavori, in questa fase 2, ancor più veloce di come era prima del lockdown.

Eppure nel dubbio ci domandiamo: “E se la crisi economica innescata dal virus spingesse la governance politica, italiana ed europea, a insistere e incrementare gli investimenti nelle grandi opere come cura alla crisi stessa?”. Un dato di fatto è che tali opere sono sempre state spacciate come portatrici di progresso e lavoro, in pieno stile keynesiano. E si sa: quando il saggio indica la luna lo stolto guarda il dito. Inoltre, non è da escludere che una tale spinta propulsiva possa portare a iter semplificati che farebbero avanzare i lavori con scarsi controlli sia sulle opere stesse che sui partecipanti alle succulente gare d’appalto che attirano vari famelici squali.

Le lotte territoriali, in Italia e nel mondo, sono lotte dal basso, popolari ed eterogenee nella composizione che le attraversa. Lotte auto-organizzate, spontanee e intelligenti, praticanti diverse forme di resistenza: dal sabotaggio alle class-actions, dai cortei partecipati alle controrelazioni sui progetti (spesso più articolate di quelle ufficiali).

L’opposizione alle grandi opere nocive mette al centro il principio per cui le decisioni sui territori le prendono le popolazioni che ci vivono, autogestendosi per autodeterminarsi. Questo concetto avevamo iniziato ad affrontarlo durante la “3 giorni sull’autogestione” organizzato dentro l’ex caserma Sani occupata, insieme ad esponenti dei movimenti NoSnam, NoTap, NoTav e Cittadini contro l’Ilva.

Dobbiamo porci le giuste domande e reclamare i giusti diritti. Dobbiamo spargere ora semi che germoglieranno come nuove forme di collettività e quotidianità. Dobbiamo piantare le radici che faranno crescere un nuovo mondo. Le accortezze individuali sono una buona pratica, ma dobbiamo reclamare una conversione ecologica del sistema di produzione e consumo che sia collettiva e che diventi una rivendicazione politica.

Gli ecosistemi non devono più essere considerati come merce dotata di un valore economico. E allora le giuste domande da porsi potrebbero essere:
– Cosa è che avevamo prima e che non vogliamo più nel mondo che avremo forse la possibilità di ricostruire?
– Cosa siamo disposti a modificare della nostra vecchia quotidianità per perseguire questo scopo? In che modo possiamo farlo?
– Come possiamo pretendere un cambio di regime da parte delle istituzioni politiche e sociali?
– Da dove vogliamo partire per iniziare ad autodeterminarci, perchè si autodetermini anche la gente delle nostre comunità?
– Chi può fare questo se non io e chi è davvero sulla mia stessa barca, in ogni parte del mondo?
– Quanta responsabilità politica vi è dietro la pandemia? Quanta responsabilità abbiamo noi e come evitare il ripetersi di un evento del genere?

Pensare globalmente e agire localmente: le lotte territoriali sono forme di resistenza locali che cercano di contrastare un modello di sviluppo e produzione che incarna quelle pratiche, utilizzate in tutto il mondo, di appropriazione e di mercificazione delle risorse collettive. Tali pratiche vengono celate spesso in maniera subdola, servendosi del greenwashing: molti paesi europei dichiarano lo stato di emergenza climatica e poi sovvenzionano opere climalteranti, direttamente come il TAP o indirettamente tramite l’incentivazione del traffico veicolare come col potenziamento del Passante di mezzo. Un primo passo verso l’adempimento degli sforzi richiesti dalle domande appena elencate può quindi essere il contrasto messo in atto con la lotta alle grandi opere, una pratica di lotta puramente territoriale.

Siamo stanch* di accettare decisioni calate dall’alto senza nessuna consultazione di chi quelle opere le deve subire sulla propria pelle, sulle proprie terre. Il consueto meccanismo “investimenti pubblici e profitti per pochi privati” ci sta dirottando verso modelli di sviluppo sempre più dannosi, sia da un punto di vista ambientale che dei diritti fondamentali, per le nostre vite e quelle delle generazioni future. Nel bolognese è in progetto una grande opera, il già menzionato Passante, che per vari motivi può essere ritenuto inutile e imposto, come mostreremo a breve. Conosciamo bene l’imbottigliamento di autostrada e tangenziale bolognesi, così come l’elevato numero di incidenti sulle stesse (basti guardare le esplosioni delle autobotti delle ultime due estati) quindi chiediamo una riconversione ecologica del sistema dei trasporti dell’area metropolitana.

Il Passante è progettato per essere lungo solo 13 Km e col potenziamento in atto farà transitare in media 180.000 veicoli al giorno incanalando circa il 50% del traffico veicolare bolognese in una zona di circa 1 km quadrato che è popolata da 90.000 abitanti e in cui sono presenti diverse scuole. Come per ogni grande opera anche i promotori del Passante propongono compensazioni che mitighino i danni che creeranno: 130 ettari di verde (a Bologna? dove e come?) che però assorbirebbero solo il 2% del monossido di carbonio. Il contentino per gli ultimi e le ultime. Come l’anacronismo insito nel TAP (più gas in una Europa che deve abbandonare il fossile) e nel TAV (potenziamento di una linea ferroviaria ad alta velocità laddove quella già esistente è scarsamente utilizzata), anche il progetto dietro il Passante non è da meno. Secondo la sua logica, per decongestionare le strade se ne costruiscono altre. La tesi contraria, tuttavia, è così nota che si è guadagnata tre nomi diversi (i matematici lo chiamano paradosso di Braess, i trasportologi congettura di Lewis-Mogridge e gli economisti paradosso di Downs-Thomson) e sostiene che aumentando il numero di strade si incentiva il traffico veicolare privato e si disincentiva il trasporto pubblico che ha così meno utenti, meno risorse e quindi un servizio più scadente; risultato: ancora più congestionamento del traffico e i tempi di percorrenza si allungano. Un cane che si morde la coda. Siamo nel momento storico in cui la finanza e gli stati si sforzano di mantenere il capitalismo “in vita”, lottando contro le continue crisi economiche che fanno sussultare tale modello economico: è il sintomo di come il capitalismo abbia fallito, poichè per natura esso dovrebbe auto-sostentarsi.

Invece di aumentare il numero di corsie, si potrebbe investire maggiormente nei trasporti pubblici per le zone inter ed extra urbane: la maggior parte dell’intasamento del traffico autostradale e in tangenziale è dovuto ai mezzi utilizzati dai bolognesi stessi per recarsi al lavoro. Obbligare le aziende dei trasporti ad abbassare il prezzo dei biglietti dei bus per l’area urbana, invece di aumentarli e renderli sempre più elitari, in modo da disincentivare l’utilizzo dell’auto in una città dove la bicicletta sarebbe il mezzo più funzionale. Potenziare la rete ferroviaria dei trasporti nell’area metropolitana, invece di investire in un people mover che risulta inutile e obsoleto prima ancora della sua attivazione. Le alternative ecologiche ci sono. Non frutteranno guadagni a quei pochi investitori coinvolti ma porteranno il benessere reale a chi vive questa città, che sorge nel cuore dell‘area con la più alta concentrazione di biossido d’azoto d’Europa. Questi semplici ma efficaci ragionamenti possono nascere solo se ci si pone le giuste domande e se si ragiona e agisce collettivamente. L’individualismo neoliberista non è più sostenibile, dobbiamo farci comunità resistenti.

Non vogliamo più grandi opere ma opere grandiose in termini di benessere della collettività e rispetto della natura.
Determinate opere possono esistere solo come dolenti paradossi. Le grandi opere sono la concretizzazione dell’ingiustizia ambientale e sociale di questo secolo. Sono abominii finanziati con soldi pubblici, protette e militarizzate da uno spropositato numero di forze dell’ordine schierate contro i solerti abitanti ancestrali dei territori su cui questi giganteschi eco-mostri imprimeranno un danno permanente. Popoli che oppongono a questi scempi i loro corpi, mettono in gioco le loro vite e libertà per garantire le stesse alle future generazioni. Dobbiamo essere determinati e alzare il livello dello scontro, dobbiamo unire le forze su scala nazionale e globale per fermare definitivamente lo scempio in atto, prima che sia troppo tardi.

Ci impegneremo per impedire l’ennesimo ecocidio in una città come Bologna, che, col passare degli anni, ha azzerato completamente il dibattito pubblico e ha messo da parte le esigenze dei cittadini in nome del profitto, della turistificazione, gentrificazione e di una dissennata speculazione edilizia. Ci troveranno a fianco di chi già da anni si oppone a quest’opera, come gli uomini e le donne dei comitati cittadini.